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Friday, January 11, 2013

I kamikaze di Fukushima si confessano

Parla Atsufumi Yoshizawa, uno dei "50 eroi" 

I kamikaze di Fukushima si confessano

Una rara intervista a uno dei volontari che salvarono quel che resta dei reattori nucleari. I 50 di Fukushia sono di più, qualche centinaio almeno, ma ormai la definizione si è affermata ed è quella che indica quegli uomini che all’indomani del terremoto che mandò in tilt i reattori della centrale nucleare, provocando il peggior incidente nucleare della storia del Giappone, si buttarono tra le rovine della centrale e per settimane operarono tra radiazioni, esplosioni e pericoli tremendi per domare le reazioni nucleari rimaste senza controllo.
LE PAROLE - Atsufumi Yoshizawa è uno di loro e ha concesso una rara intervista a The Guardian, rara perché questi moderni eroi non sono diventati star celebrate pubblicamente, ma piuttosto si sono nascosti all’attenzione, la maggioranza rifugiandosi persino nell’anonimato. Sembra che la particolare psicologia giapponese li spinga a sentirsi prima responsabili del disastro, insieme alla loro azienda, e solo dopo, solo in misura minore, fieri di essere riusciti a domare il mostro nucleare.
EROI? - Anche Yoshizawa spiega di non sentirsi un eroe. Dice infatti che dopo il terremoto era sicuro solo di due cose: che non sarebbe scappato e non sarebbe morto. 54 anni, era a fine turno quando la terra cominciò a tremare scuotendo violentemente gli edifici che ospitavano i reattori, tanto da costringerlo ad accucciarsi in un corridoio sotto un tavolo per ripararsi dai pannelli che cadevano dal soffitto della sala di controllo. Guardando fuori dalla finestra vide le auto che rimbalzavano nel parcheggio scosse dal terremoto, una cosa che non aveva mai visto prima. Con lui al lavoro c’erano altri 6.000 lavoratori, molti dei quali con le famiglie che vivevano nei pressi della centrale, la sua famiglia invece era al sicuro lontano, e fu per questo che lui non fu tra quanti lasciarono l’impianto nei primi momenti dopo l’emergenza. Rifugiatosi in un ricovero d’emergenza nelle vicinanze, fu raggiunto lì dalla notizia dello tsunami.
DECISIONI DIFFICILI - Sulla scena del disastro per Yoshizawa la parte più pesante del lavoro fu mandare i più giovani nelle aree più pericolose, mentre tra l’altro le scosse d’assestamento molto violente continuavano a colpire la zona. Alcuni rimasero feriti dalle esplosioni d’idrogeno che scoperchiarono uno dopo l’altro gli edifici che contenevano i reattori, ma il problema maggiore consisteva nel gestire i tempi d’esposizione alle radiazioni. Disgraziatamente si saprà poi che Tepco schermava gli esposimetri per fare in modo che gli uomini potessero rimanere più a lungo, ma Yoshizawa non accuserebbe mai l’azienda.
L’ONORE E’ PERDUTO -  Non che gli equipaggiamenti e le dotazioni fossero all’altezza, per i primi due giorni i lavoratori hanno potuto bere solo mezzo litro d’acqua a testa. Seguirono mesi intensi e solo nel novembre del 2011 il governo e Tepco decisero che la forza d’emergenza poteva smobilitare e anche Yoshizawa così tornò a casa e si riposò. Anche da questa intervista sembra che in lui, come nei giapponesi, sia salda l’idea che il fallimento sia responsabilità di TEPCO e dei suoi dipendenti e che nessuna redenzione sia possibile, nemmeno il passaggio per l’inferno radioattivo sembra sia stato sufficiente a riscattare l’onore perduto di quegli uomini, che ora si nascondono.

Fonte:  http://www.giornalettismo.com

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